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Mediterraneo.... : Civiltà e popoli del Mediterraneo
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Recommend  Message 1 of 7 in Discussion 
From: MSN NicknameCreativa®  (Original Message)Sent: 6/30/2003 7:28 PM
Civiltà e Popoli del Mediterraneo

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Recommend  Message 2 of 7 in Discussion 
From: MSN Nickname¤Nuvola¤Sent: 7/2/2003 8:26 AM
 
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Algeria
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Cipro
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Croazia
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Egitto
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Grecia
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Israele
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Italia
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Libia
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ex Jugoslavia
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Malta
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Marocco
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Serbia
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http://www.amonth.lgs.it/amonth1/IMPEXP/EUROPA/SPAGNA/HTM
http://www.intesys.it/PalazzoFort/dalimiro/grp1.html
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http://www.tmn.it/scaglia/malaga2.htm
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Tunisia
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Turchia
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From: MSN NicknameŜħσųŧSent: 7/7/2003 4:44 PM

http://www.cronologia.it/mondo61a.htm

I FENICI - LA STORIA


PER LA ZONA IN CHIARO VEDI CARTINA PIU' AVANTI

IL "TESTO DI PARAIBO" - CIVILTA' SCOMPARSE - CHI ERANO I FENICI ?
LA STORIA - ARRIVANO GLI ASSIRI
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(nella seconda parte)
L'ESPANSIONE NEL MEDITERRANEO - LA STORIA DI CARTAGINE - L'IMPERO DI CARTAGINE - LE COLONIE DI CARTAGINE - LO SCONTRO CON ROMA - LA RELIGIONE - L'ARTE - ECONOMIA E COMMERCIO
L'ALFABETO FENICIO-GRECO-ETRUSCO-LATINO

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IL TERRITORIO

Guardando la cartina dell'antica Fenicia, si può comprendere come il destino del popolo che la abitava fosse inevitabilmente rivolto verso il mare. La Fenicia infatti, corrispondeva alla maggior parte della costa del Libano attuale, limitata a sud dal monte Carmel, a nord dal golfo diIskenderun; a est dalla catena del Libano e a ovest dal mare. Si presenta come uno stretto passaggio tra l'Africa e l'Asia; al di là del Libano si estendeva il grande deserto della Siria. Gli abitanti erano quindi addensati in una fascia di terra molto stretta perché la catena del Libano dista dal mare soltanto 50 chilometri nel punto più lontano e una quindicina nel punto più vicino. Lo stesso territorio è diviso in parecchi settori isolati e avendo dietro i monti le comunicazioni fra una città e l'altra erano spesso quelle attraverso il mare.
La conformazione del territorio non era quindi tale da far contare su sufficienti risorse agricole.

Costretti in un territorio angusto e scarso di risorse naturali, tutto affacciato al mare e prossimo ai più grandi imperi dell'antichità, è intuibile come la vocazione dei Fenici fosse rivolta ai commerci e come nel mare essi vedessero la via naturale per i loro scambi. Quasi tutte le loro città vennero fondate su capi protesi nel Mediterraneo, preferibilmente nei pressi di isole dove la popolazione poteva rifugiarsi in caso di invasioni nemiche. Si sceglieva di preferenza la posizione a cavallo di un promontorio, perché ciò permetteva l'uso di due porti uno verso il nord, uno verso il sud. I testi ricordano 25 città e moltissime borgate. Fra di esse spiccano per la loro importanza politica o religiosa: Byblos, Sidone e Tiro.

La Fenicia fu abitata da tempi antichissimi, come è provato dai ritrovamenti di località preistoriche. Agli inizi del XXVI secolo prima della nostra era, una forte emigrazione di popoli semiti partì dal nord della Siria e invase il territorio fenicio. Anche i rapporti fra l'Egitto e la Fenicia furono molto antichi, cioè addirittura anteriori all'epoca storica; e lungo il terzo millennio questi rapporti continuarono ancora. Nel secondo millennio sappiamo che i principi della città fenicia di Byblos erano vassalli dell'Egitto. Per quest'epoca abbiamo un documento unico di fonte egiziana che fa un ritratto pittoresco della vita nell'interno del paese della Fenicia. E' il racconto chiamato: Le Avventure di Sinuhe nel quale vi è dipinta con la più scrupolosa fedeltà la vita di questo popolo, che fino a poco tempo fa conoscevamo quasi nulla.

Come per gli Egizi (qualcosa l'Europa apprese dopo la spedizione di Napoleone - dopo il rinvenimento della "Stele di Rosetta" che Champollion poi decifrò), cosi i Fenici, ogni loro traccia, ogni documento rimase sepolto nella polvere.

Il ritrovamento del primo documento della storia fenicia ha qualcosa di avventuroso e comincia nel 1872.
Sembra che l'America sia stata scoperta 1000 anni prima dei Vichinghi, 2000 anni prima di Cristoforo Colombo.
Della stessa scrittura fenicia, nulla sapevamo fino a un secolo fa.
« Noi siamo figli di Canaan, veniamo da Sidone, la città del re. Il commercio ci ha gettati su questo lido remoto, in una terra di montagne. Abbiamo sacrificato un giovane agli dei e alle dee, nel diciannovesimo anno di Hiram, nostro potente sovrano. Partiti da Ezion-geber nel Mar Rosso, abbiamo viaggiato con dieci navi. Siamo rimasti assieme per due anni attorno alla terra di Cam (Africa), ma la tempesta ci ha separato dai nostri compagni. Così siamo arrivati qui, dodici uomini e tre donne, su una spiaggia che io, capitano, governo. Che gli dei e le dee possano benevolmente soccorrerci ».

Queste parole sono raccolte su di una tavola di pietra: duecento e quarantasei caratteri fenici, oggi facilmente comprensibili e traducibili. Ma ciò che dà importanza a questo documento, e che ha fatto discutere gli esperti di tutto il mondo, è una circostanza eccezionale: l'incisione è stata ritrovata in Brasile!
Si può quindi dedurre che i Fenici giunsero per primi in America, prima ancora non solo di Colombo, ma anche dei Vichinghi?
La deduzione è però contrastata da molti autorevoli studiosi, che negano con argomenti degni del massimo interesse e rispetto l'autenticità del documento fenicio, ritenendolo un'abilissima prova di falsificazione, dovuta ad un esperto di cose fenicie. Ma vi sono pure autorevoli studiosi che ritengono autentica e veritiera l'incisione.
Cercheremo ora rapidamente di far comprendere ai nostri lettori i termini della questione, che sfumano spesso in caratteri degni d'un racconto giallo: non si tratta infatti d'una questione erudita, ma di una discussione di grande importanza per giungere diritto allo scopo di questo nostro capitolo: illustrare le caratteristiche della vita e della civiltà dei Fenici. L'iscrizione fenicia ha avuto certamente il merito di far riaccendere l'interesse non soltanto degli specialisti e degli studiosi, ma un po' di tutti, su di un popolo e su di una civiltà che per lungo tempo esercitarono il predominio indiscusso sui mari.

IL "TESTO DI PARAIBO"

Dicevamo che la storia dell'iscrizione fenicia è essa stessa avventurosa: comincia nel 1872 ed il primo protagonista è uno schiavo d'una piantagione del Nord Est del Brasile; è lui a trovare questa pietra che porta strani segni sulla sua superficie levigata con cura. Incuriosito la porta al figlio del padrone, che con sensibilità certo rara, provvede a trascrivere con grande scrupolo quei segni misteriosi e poi spedisce la copia della trascrizione al Museo Nazionale di Rio de Janeiro. A questo punto inizia la seconda fase della storia di quello che intanto ha già un nome preciso, che gli viene dal luogo in cui è stato ritrovato: « testo di Paraibo ». Il direttore del Museo, benché non sia uno specialista, intuisce l'importanza del documento e rende pubblica la scoperta invitando gli studiosi a pronunciarsi. Intanto cerca di recuperare la pietra incisa, ma è scomparsa!
Gli studiosi sono profondamente divisi nel giudizio sul « testo di Paraibo »: autentica o falsa, le posizioni sono opposte e inconciliabili. E la questione finisce nell'oblio. Improvvisamente un colpo di fortuna: un professore americano acquista un fascio di vecchie carte presso un rigattiere; tra tante altre cianfrusaglie c'è un quaderno che contiene una lettera spedita dal direttore del Museo di Rio ad uno studioso americano: la lettera contiene il « testo di Paraibo »! E così il testo arriva al noto esperto di cose fenicie Cyrus H. Gordon, che lo studia con estrema attenzione, concludendo con l'affermazione della sua veridicità e autenticità.
Il Gordon basa la sua tesi non soltanto sull'esame linguistico del testo, ma anche sulla piena concordanza che c'è tra i fatti narrati nell'iscrizione e quelli tramandati a noi dagli storici antichi. Erodoto, infatti, racconta che durante il regno del faraone Necho (intorno al 500 avanti Cristo), fu allestita una flotta di navi fenicie, che salpò dal porto di Ezion-geber, sul Mar Rosso, e compì il periplo dell'Africa; le navi fecero ritorno soltanto tre anni dopo attraverso il Mediterraneo: i marinai, suscitando incredulità, affermarono d'aver navigato per lungo tempo con il sole a destra.
Duemila anni dopo, anche Dante Alighieri, scrisse qualcosa nel suo poema che forse molti non capirono Lui neppure forse. Le inserì e basta. Per diversi secoli molti non compresero quelle tre righe così oscure e passarono oltre. Le vogliamo riportare: Nel Primo canto del Purgatorie Dante dice:
Io mi volsi a man destra, e puosi mente
all'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'alla prima gente.
Goder pareva il ciel di loro fiammelle:
ho settentrional vedovo sito
poichè privato se' di mirar quelle!

(versi 22-27).
Nessuno fino al 1488 (prima di Cao e poi Diaz, nel periplo dell'Africa) aveva mai navigato fino allora oltre i 20 gradi a sud, e la Croce del Sud non è assolutamente visibile se non dal 30° grado.
Ma Dante sa ancora di più, che la terra è rotonda, e che l'Orsa maggiore si abbassa sempre più sull'orizzonte man mano che si procede verso sud, mentre la Croce del Sud si alza nel cielo notturno.
Ma come fa a saperlo? - Infatti proseguiamo la lettura nei versi 28-31.
Com'io dal loro sguardo fui partito,
Un poco me volgendo all'altro polo,
Là onde il Carro già era sparito,
Vidi presso di me un veglio solo...

Poi in un altro punto al canto quarto, versi 55 sgg, Dante riferisce d'esser giunto nell'emisfero meridionale e di aver visto il sole a nord. Insomma troppo preciso. Non può essere una invenzione nè teorica nè poetica. Qualcosa da qualche parte doveva aver letto, e fedelmente lo riporta.

Dunque è possibile supporre che nel corso della navigazione, le navi fenicie trasportate verso occidente o da una tempesta o dalle correnti e dai venti, finirono per toccare la punta del Nord-Est del Brasile, che è pure la zona dell'America del Sud più vicina all'Africa!
Ma la tesi di Gordon è respinta da un altro autorevole studioso di cose fenicie, Sabatino Moscati, che in un'intervista ha dichiarato di non credere che l'iscrizione sia autentica: « E' troppo bella e interessante per esserlo ». Ma il parere negativo di Moscati si basa su di un'attenta discussione del testo linguistico dell'iscrizione, troppo bene elaborata per essere stata composta da un marinaio (ma siamo poi sicuri che era un semplice marinaio?). Ma il dubbio resta: è tutto vero o è soltanto l'invenzione d'un bizzarro e geniale cultore di testi orientali?

CIVILTA' SCOMPARSE

Abbiamo soffermato la nostra attenzione su questa vicenda che potrebbe sembrare una questione erudita da risolversi tra specialisti della materia, per far comprendere ai nostri lettori che talvolta l'archeologia, lo studio di ciò che non è più, di ciò che è scomparso, finisce per diventare qualcosa di direttamente attuale e contemporaneo, che tutti interessa e tutti un po' coinvolge: la conclusione dovrebbe pertanto essere di interesse profondo per una scienza che è sì di altissima specializzazione e di grande erudizione, ma spesso può risolversi in argomenti spettacolari, tali da avvincere tutti coloro che provano passione per le grandi vicende della storia dell'uomo.
Ricordiamoci che ancora poco più di un secolo fa, i maggiori scienziati del tempo, chiamavano "buffoni" coloro che sostenevano che i fossili (conchiglie, piante, animali, ecc. ecc.) erano testimonianze di un passato molto remoto della Terra, e non "scherzi della natura" come sosteneva il clero.
Nel 1750 c'era stato un uomo audace, BUFFON, che ipotizzò che la Terra aveva 75.000 anni, e affermava che la vita vi era apparsa dopo 35.000 anni. La reazione del mondo degli studiosi fu quella di perdonare questa "buffoneria" , affermando che si addiceva al nome che l'autore portava. Del resto anche lo stesso Voltaire, in una sua Storia del mondo, considera i fossili uno scherzo della natura e nel parlarne sorvola in gran fretta il tema
La stessa archeologia e paleontolgia era considerata un'eresia. I fossili pietrificati erano scherzi della natura, e che ogni scheletro di uomo o animale non poteva datare oltre il 4004 a.C. cioè dalla Creazione Biblica del mondo, quella cioè che il teologo LIGHTFOOT nel 1675 aveva fissato (dopo discussioni di secoli) con una sua certezza matematica: Dio aveva creato il mondo alle ore 9 del mattino del 26 ottobre, appunto del 4004 a.C.

CHI ERANO I FENICI ?

La discussione sul « testo di Paraibo » ci porterà ora ad illustrare le caratteristiche di questa grande civiltà fenicia: nostra guida preziosa e d'eccezionale fascino è il libro di Sabatino Moscati, Il mondo dei Fenici, Il Saggiatore, 1966, cui rinviamo subito tutti quei lettori desiderosi di approfondire e meglio conoscere questo appassionante argomento.
Il nome « Fenici » risale certamente ad Omero, se non oltre, ed è senza dubbio collegato al nesso semantico che in greco vale « rosso porpora », quindi alla tipica industria della colorazione dei tessuti con la porpora, propria delle città fenicie. Fenici è dunque un nome straniero, ma le fonti locali registrano il nome di «Cananei» per gli abitanti e di «Canei» per gli abitanti e di «Canaan» per la regione; nomi che nella Bibbia sono estesi ad indicare genericamente un po' tutte le popolazioni preisraelitiche. Se Cananei fu verosimilmente un nome che i Fenici usarono per designare se stessi, certamente esso non fu l'unico e forse non il principale: troviamo registrato anche quello di Sidonî, dal nome della città famosa di Sidone. Particolarmente interessanti sono le osservazioni che Moscati svolge su questa incertezza della denominazione: « Scarsi e poco frequentemente usati sono i nomi che designano i Fenici come unità, almeno per quanto riguarda i Fenici stessi: il che è chiaro riflesso del frazionamento dell'area e del prevalere in essa della coscienza cittadina su quella nazionale». In questo senso, dunque, già nel loro nome i Fenici rivelano la caratteristica peculiare della propria civiltà.

Da dove proviene questo popolo? Come per quasi tutti gli altri popoli dell'antichità le ipotesi sono diverse e tra loro contrastanti, ma sulla scorta degli spunti che offrono gli autori classici è possibile concretarne diverse: Filone di Biblo afferma che i Fenici sono autoctoni; Erodoto li fa abitare primariamente sul Mare Eritreo; Strabone afferma che sul Golfo Persico si trovavano templi e città simili a quelli fenici; e Plinio lo conferma; Giustino infine narra che, allontanati dalla loro patria per un terremoto, si sarebbero insediati prima sul lago siro (il Mar Morto?) e quindi sulla costa del Mediterraneo. Ma il problema delle origini non ha un valore decisivo per i Fenici, che si costituiscono come « nazione » sulla base di un'evoluzione storica nell'area siro-palestinese e non in quanto frutto di una migrazione di genti dall'esterno: sono anzi altre genti che migrano (Filistei, Ebrei, Aramei) a comprimere le città fenicie in condizioni autonome di vita.

La regione abitata dai Fenici può essere indicata nell'area costiera siro-palestinese; una regione che ha profondamente caratterizzato la storia del popolo che l'ha abitata: essenzialmente montuosa, solcata da brevi valli, più spesso i promontori rocciosi si protendono nel mare, modesti i torrenti che con le piogge s'ingrossano e di estate si seccano; insomma questa situazione geografica ha determinato tre condizioni essenziali: la prima è la frattura con le popolazioni dell'entroterra, isolate dai rilievi montuosi; ma in secondo luogo, i rilievi hanno pure impedito la formazione d'uno stato unitario, e favorito invece la crescita di città autonome; in terzo luogo la sola via che si apre di fronte a queste popolazioni è il mare e il solo strumento di lavoro è il commercio. L'agricoltura era tuttavia particolarmente sviluppata, approfittando d'un terreno che è, a paragone d'altri vicini, molto fertile: la maggior ricchezza della Fenicia erano però le foreste del Libano, che fornivano pini, cipressi e soprattutto cedri, ancor oggi famosi in tutto il mondo.
Un paese dunque di notevoli risorse economiche, ma che la configurazione geografica proiettava naturalmente in una dimensione di scambi e di commerci, in un primo momento con i popoli vicini, poi con tutte le regioni che s'affacciano sul Mediterraneo e anche oltre le mitiche colonne d'Ercole.

LA STORIA

Particolarmente complessa è la ricostruzione delle primissime fasi storiche della civiltà dei Fenici: i dati storici ricavabili da documenti e da iscrizioni sono scarsi, mentre più ricche possono essere le fonti indirette, che forniscono diverse notizie sull'assoggettamento delle città siropalestinesi; tra queste fonti riveste primaria importanza la Bibbia, i cui libri storici danno più volte precise notizie delle relazioni con le città fenicie e con quella di Tiro in modo particolare.
L'invasione dei « popoli del mare », intorno al 1204 avanti Cristo, colpì direttamente alcune città costiere: Arado fu distrutta e probabilmente anche Sidone; tuttavia questa situazione politica e militare conseguente alle invasioni consentì l'inizio di un'era di indipendenza: le città fenicie approfittarono di un momento di inattività delle grandi potenze nell'area siro-palestinese: l'Assiria si era rinchiusa nei suoi confini, l'Egitto era stato duramente sconfitto.


Le città protagoniste di questa nuova fiorente fase storica sono: Arado, Biblo, Sidone, Tiro; tra tutte forse Sidone ha esercitato un predominio ed un'influenza particolare. Il momento felice di questa fase di espansione è testimoniato da documenti che ci narrano d'una spedizione compiuta dal re assiro Tiglatpileser I (1112-10741 nell'Alta Siria dove ricevette tributi da Arado, Biblo e Sidone.: il re confermò l'autonomia della zona e probabilmente stipulò contratti commerciali con alcune città fenicie.

Nella loro espansione territoriale e commerciale i Fenici trovarono come diretti antagonisti i Filistei e gli Israeliti: se sui rapporti con i primi ci resta la sola notizia della distruzione di Sidone ad opera degli Ascalonesi, per quanto riguarda gli Israeliti tutto il Vecchio Testamento è ricco di dati e di racconti storici.
Con ogni probabilità, ad esempio, David, nell'espandere il suo stato, incluse in esso larga parte della costa fenicia: ma Tiro, la città fenicia più importante in questo periodo, rimase certamente autonoma, e inviò a David artigiani e legno di cedro per edificargli un palazzo.

Al tempo di Salomone (961-922) le notizie si fanno ancora più precise e più ricche: a Tiro regna ancora Hiram (969-936), che ingrandisce la città e l'abbellisce con nuovi templi e opere pubbliche. In questo periodo i rapporti tra i Fenici di Tiro e gli Israeliti sono molto buoni ed improntati al riconoscimento della rispettiva autonomia; un particolare curioso, che bene rivela lo spirito d'amicizia che unì i due re, è quello che ci mostra Salomone e Hiram in gare di sapienza, intenti a risolvere gli indovinelli che a vicenda si pongono. Al di là di questi episodi aneddotici, sta il fatto piuttosto rilevante d'una spedizione marittima nel paese di Ofir intrapresa in comune dai due re: Salomone costruì le navi, dice la Bibbia, ma Hiram fornì i marinai, «navigatori esperti del mare». Dunque fin dal X secolo la perizia marinara dei Fenici si era affermata sui paesi vicini.
Ad Hiram successe Baleazar, che visse quarantatre anni e ne regnò diciassette (935-919); Abdastratos, che visse ventinove anni ne regnò nove (918-910) e fu ucciso dai figli della sua balia. Di questi regnò prima Methustratos, che visse cinquantaquattro anni e ne regnò dodici (908-898); quindi Astharymos, che visse cinquantotto anni e ne regnò nove (897-889); quindi, assassinando il fratello, Phelles che visse cinquant'anni e regnò otto mesi (888). Phelles fu assassinato da un sacerdote di Astarte, Ittobaal, che visse sessantotto anni e ne regnò trentadue (887-856), inaugurando una nuova dinastia che sarebbe durata almeno un secolo.
Il periodo di agitazioni e di guerre intestine che Ittobaal conclude corrisponde significativamente ad un analogo periodo di torbidi in Israele nel momento in cui la normalità torna a Tiro, anche tra gli Israeliti torna per opera di Omri; e tra Omri e Ittobaal si riprende quel clima di relazioni amichevoli tra i due stati. La potenza di Tiro sotto Ittobaal si estende fino a porsi come egemonia su tutta la regione fenicia; ma la religione dei Fenici acquista vantaggio anche presso gli Israeliti, come chiaramente mostrano alcune dure pagine della Bibbia.

ARRIVANO GLI ASSIRI

Questo periodo di autonomia delle città fenicie è interrotto dalla decisa ripresa della potenza politica e militare degli Assiri, sotto il re Assurnasirpal II (883-859), che intorno all'875 organizzò una spedizione in Fenicia. Le città fenicie si arrendono senza ingaggiare battaglia, com'era costume dei piccoli stati, ma pagando tributi e donando omaggi al più potente: Tiro, Sidone, Biblo, Arado ed altre città minori si piegarono al re assiro. Anche il suo successore, Salmanassar III (858-824) compie a più riprese spedizioni in occidente, esigendo tributi e imponendo la sua supremazia; la situazione si tranquillizza alla sua morte, ma non per questo vien meno il senso dell'egemonia assira sulle coste fenicie.


Durante tale periodo è da segnalare la spedizione effettuata da Adadnirari III (809-782).
Con Tiglatpileser III (745-727) la pressione assira si rinnova e si fa più decisa, passando risolutamente all'annessione territoriale delle reaioni settentrionali della Fenicia fino all'altezza di Biblo, restando questa città e Aràdo in condizioni di relativa autonomia. In seguito Salmanassar V (726-722) conquista Samaria, e Sargon II (721-705) porta la supremazia assira su Cipro: questo fatto finisce per limitare notevolmente le ancor fiorenti capacità commerciali dei Fenici; la conquista di Cipro da parte assira decide anche il controllo del bacino orientale del Mediterraneo. L'avanzata degli Assiri procede con regolarità: sotto il regno di Asarhaddon (681-668) il territorio fenicio è ormai diviso in province sottomesse all'autorità assira: al nord Simira, al centro la zona di Sidone, a sud quella di Tiro; resistono soltanto alcune autonomie cittadine, ormai isolate e direttamente minacciate: Arado, Biblo e Tiro insulare. Sotto Assurbanipal (668626) anche queste città, dopo un tentativo di rivolta, connesso a quello egiziano di scuotere il dominio assiro, cadono e diventano tributarie.
Successivamente, al ritorno dalla campagna contro le tribù arabe, Assurbanipal deve affrontare nuove ribellioni fenicie.
La situazione si presenta immutata alla caduta dell'impero assiro e all'arrivo dei Babilonesi, nel 612; e così pure ben poco dovette cambiare al momento del sopravvento dei Persiani, fino alla riforma dell'impero persiano decisa da Dario I, che nel 515-514 divise il vastissimo territorio a lui sottomesso in satrapie e riunì le città fenicie nella quinta satrapia, lasciando tuttavia i re e le autonomie locali sotto il controllo però di commissari, che curavano il pagamento dei tributi e la fedeltà militare.
In questo periodo si registra un certo predominio di Sidone sulle altre città: il re di Persia vi aveva una propria residenza.
Con il IV secolo a.C. si può notare una certa evoluzione nella politica delle città fenicie verso la Persia. Nel 392, quando il greco Evagora s'impadronisce di Cipro e attacca la Fenicia, Tiro e altre città gli si sottomettono temporaneamente. Nel 362 il re Stratone di Sidone si riavvicina ai Greci, fino ad ottenere il soprannome di Filelleno. Tenne, re di Sidone dal 354 al 344, si ribella nel 346, distruggendo il palazzo del satrapo e saccheggiando il parco reale: il re Artaserse Oco interviene compiendo una strage terribile e annientando la rivolta: Sidone è messa a ferro e fuoco e più di quarantamila abitanti sono massacrati.
Il dominio persiano si conclude con la conquista, di Alessandro Magno: dopo la vittoriosa battaglia di Isso (333) le principali città fenicie gli aprono le porte. Tiro. invece vuole conservare la propria autonomia e Alessandro decide di conquistarla, cingendola d'assedio. E' questa una delle pagine militari più importanti nella storia della strategia antica. Alessandro per raggiungere l'isola di Tiro intraprende la costruzione di un terrapieno e per proteggersi durante i lavori ottiene l'aiuto della flotta delle altre città fenicie: alla fine anche Tiro, cui viene a mancare il promesso aiuto di Cartagine, è costretta a cedere con gravi perdite.

La conquista di Alessandro Magno segna praticamente la fine della potenza fenicia: tutto il territorio siro-palestinese si ellenizza, la stessa lingua greca sostituisce le lingue locali. Ma il processo della crisi è molto lento e non senza alcuni significativi ritorni di autonomia. Anche dopo la conquista romana, nel 64 a.C, Tiro, Sidone e Tripoli, continuano a godere di una certa autonomia: malgrado queste resistenze, il corso generale della storia dei Fenici può considerarsi concluso.

CONTINUA seconda parte) > > >

L'ESPANSIONE NEL MEDITERRANEO - LA STORIA DI CARTAGINE - L'IMPERO DI CARTAGINE - LE COLONIE DI CARTAGINE - LO SCONTRO CON ROMA - LA RELIGIONE - L'ARTE - ECONOMIA E COMMERCIO
L'ALFABETO FENICIO-GRECO-ETRUSCO-LATINO

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CRONOLOGIA GENERALE


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L'ESPANSIONE NEL MEDITERRANEO - LA STORIA DI CARTAGINE - L'IMPERO DI CARTAGINE - LE COLONIE DI CARTAGINE - LO SCONTRO CON ROMA - LA RELIGIONE - L'ARTE - ECONOMIA E COMMERCIO
L'ALFABETO FENICIO-GRECO-ETRUSCO-LATINO
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L'ESPANSIONE NEL MEDITERRANEO

Finora abbiamo tracciato in rapide linee la storia dei Fenici d'Oriente. Ma la caratteristica peculiare della civiltà fenicia è quella d'essersi lanciata alla colonizzazione dei punti più importanti, da un punto di vista sia strategico che commerciale marittimo, del Mediterraneo. E la storia più bella dei Fenici è forse proprio questa della loro espansione, della loro « diaspora » in tutte le regioni del bacino mediterraneo e anche al di là dello stretto di Gibilterra. (qualcosa di molto simile faranno poi gli Arabi, dominando il Mediterraneo per oltre circa quattro secoli.
La colonia che è un po' il simbolo di questa attività commerciale e marinara dei Fenici, e il cui destino strettamente si legherà a quello di Roma è Cartagine. La colonia divenne ben presto città autonoma e poi un formidabile impero economico e commerciale, una potenza di primissimo piano, creatrice a sua volta di nuove colonie e per lungo tempo bilancia della vita politica mediterranea.

LA STORIA DI CARTAGINE

La fondazione di Cartagine risale all'814/3 avanti Cristo, e sulle circostanze che la causarono vi sono ampie testimonianze. La tradizione vuole che i fondatori di Cartagine provenissero da Tiro, ove Elissa, sorella del re Pigmalione, aveva sposato lo zio Acherbas, sacerdote di Melqart e possessore di grandi ricchezze: Pigmalione fece assassinare Acherbas e allora Elissa, insieme ad un gruppo di cittadini fedeli all'ucciso suo sposo, fuggì in gran segreto a Cipro. Qui decise di recarsi ad Occidente e di fondare una nuova colonia. Sbarcati sul territorio, ove poi sarebbe sorta la città, Elissa ricorse ad un'astuzia per l'acquisto del terreno: concordò con il proprietario di pagare un terreno che si potesse coprire con la pelle di un bue; ma fece tagliare la pelle in minutissime striscie che coprirono tutta la collina su cui sorse la città. Da ricordare che nella tradizione al nome di Elissa si associò e poi si sostituì quello di Didone.

La nuova città stabilì subito rapporti d'amicizia con i popoli vicini: la posizione che occupava era tale però da portarla in breve tempo ad assumere una posizione di egemonia. Infatti essa era eccezionale sia in sé sia per le possibilità di irradiazione e di consolidamento dell'interno; la collina su cui sorgeva si apriva come un vasto promontorio tra due lagune, che ne difendevano ottimamente i fianchi, ed era unita al continente da un istmo sabbioso, di cui era facile e comodo assicurarsi e mantenere il controllo. Infine il promontorio offriva possibilità di terre coltivate: l'insieme era imprendibile.
Al di là di questo racconto tradizionale sulla fondazione di Cartagine mancano precise notizie sulle sue vicende, fino alla fondazione di una colonia in Ibiza, nel 654/3 avanti Cristo. Ma è indubbio che Cartagine si sviluppò presto al livello di principale centro fenicio d'Occidente, riuscendo ad imporre la propria autorità e supremazia a tutte le altre colonie. L'elemento che contribuisce in modo determinante alla realizzazione della zona d'influenza cartaginese, che poi diverrà vero e proprio impero, è la penetrazione greca nell'area mediterranea, che crea un pericolo costante per le numerosissime colonie fenicie sulle coste del Mediterraneo; ma anche la natura stessa delle colonie fenicie, avamposti isolati, facili prede delle rivolte delle popolazioni dell'entroterra, rendeva necessario un appoggio ad un centro unico, che poi era inevitabilmente proprio la colonia più forte.

Allo sviluppo sempre crescente di Cartagine fa diretto riscontro la progressiva crisi di Tiro e dell'Oriente fenicio, che, come abbiamo visto, perde sotto i colpi successivi di Assiri, Babilonesi e Persiani la forza della propria autonomia e finisce in uno stato di effettivo vassallaggio.

L'IMPERO DI CARTAGINE

All'epoca della fondazione della colonia di Ibiza, con ogni probabilità i Cartaginesi si sono impiantati anche in Sardegna ed in Sicilia, e complessivamente già nel VII secolo la diffusione mediterranea di Cartagine è un fatto reale e di grande portata.
Intorno al 600, secondo quanto narra Tucidide, i Cartaginesi subirono una dura sconfitta navale per opera dei Focesi che riescono ad installarsi così a Marsiglia, una colonia che permette loro di controllare la ricca zona della valle del Rodano. In questo momento particolarmente difficile Cartagine stringe rapporti con gli Etruschi, nel comune tentativo di contrastare l'espansione greca nel Mediterraneo. Questa alleanza permetterà una piena rivincita sui Focesi: ad Alalia Cartaginesi ed Etruschi li affrontarono in una dura battaglia sul mare, riuscendo ad infliggere loro una grave sconfitta, e ad annientare la potenza dei Focesi e nello stesso tempo a bloccare per sempre la via della Corsica e della Sardegna all'espansione greca. Alcuni trattati divisero la zona d'influenza tra Etruschi e Cartaginesi e sancirono un periodo di intensi scambi anche culturali e artistici tra le due civiltà.

L'alleanza ha però un significato più vasto sul piano mediterraneo: essa salda infatti in Occidente la catena anti-greca costituita dalle nazioni orientali sotto l'egida dell'impero persiano; la prima avvisaglia di crisi nell'alleanza anti-greca d'Occidente è data dal declino etrusco e precisamente dalla proclamazione dell'indipendenza di Roma con la cacciata dei Tarquini (510). Il primo atto internazionale della Repubblica Romana sarà proprio la stipula d'un patto d'amicizia con Cartagine: praticamente ciò dimostra come nulla potesse accadere di politicamente rilevante in Occidente senza suscitare immediatamente l'intervento di Cartagine, vero pilastro in questo periodo della storia mediterranea.

Ed è significativo il fatto che quando l'avanzata persiana contro la Grecia è bloccata, anche la potenza cartaginese subisce una serie di rovesci in Sicilia, finendo col rinunciare alle sue pretese di egemonia anche sull'isola in cui forti erano le tracce della presenza greca.

LE COLONIE DI CARTAGINE

Prima di passare ad illustrare le fasi dello scontro con i Greci in Sicilia, preludio del mortale duello con Roma, sarà bene dare un'idea dell'eccezionale grado di potenza militare e commerciale raggiunta da Cartagine, rapidamente citando le colonie più importanti sparse lungo le coste del Mediterraneo occidentale.
Partiamo dalle coste africane, procedendo da est verso ovest: il primo insediamento d'un certo rilievo che si incontra è Leptis Magna, poi Ocea (l'attuale Tripoli), più avanti Bu Settha, Sabratha; nell'area geografica dell'attuale Tunisia, il primo centro punico di rilievo è Acholla, poi Thapsos e Mahdia e Leptis Minor; particolarmente importante è Hadrumetum, oggi Susa, e anche Utica, tradizionalmente ritenuta la più antica colonia fenicia dell'Africa settentrionale. Nell'attuale territorio algerino ben poco è possibile rintracciare delle colonie di Hippo Acra (Biserta) e Hippo Regius (Bona) e Philippeville; meglio nota è Cirta (Costantina); di Icosium (Algeri) poco si conosce, data la presenza della città moderna.

Procedendo ancora verso Occidente seguono Iol (Cherchel), Gunugu (Guraya), Les Andalouses, Rachgoun, Mersa Madakh. Passando nel territorio dell'odierno Marocco, il primo centro punico che s'incontra è Russadir, poi Emsa, segue Sidi Abdselam del Behar, Tamuda; per poi passare alla costa atlantica del Marocco, con Lixus e Mogador.
Naturalmente non è sempre facile poter distinguere tra gli insediamenti originalmente punici e quelli fenici passati sotto il pieno e diretto controllo cartaginese. In generale, l'affermazione di Cartagine determina il suo sostituirsi alla madrepatria nell'opera di colonizzazione in Occidente; tuttavia alcuni reperti archeologici suggeriscono un'origine direttamente orientale, o comunque contatti con il mondo fenicio.
In Occidente non meno numerose sono le colonie: a cominciare da Malta, originariamente colonia fenicia, passata poi sotto controllo diretto di Cartagine; e con Malta le altre isolette di Gozo e Pantelleria, tutte particolarmente importanti nei traffici marittimi verso la Sicilia e verso la Grecia. In Sicilia non è possibile stabilire bene se siano giunti prima i Fenici o i Cartaginesi, in ogni caso la loro presenza è cospicua anche se tormentata da lunghe guerre, che finiranno col chiamare in causa Roma.
In Sardegna le origini fenicio-puniche sono notevolmente antiche e con sicurezza l'esistenza d'una fase fenicia è di periodo precedente la presenza punica; in ogni caso l'intervento di Cartagine nell'isola è un fatto compiuto a partire dal VI secolo. Nora, Sulcis, Inosim, Karalis (l'odierna Cagliari) e Tharros sono le colonie più importanti sulla costa; ma anche all'interno si spinse la colonizzazione cartaginese, con le colonie di Othoca, Uselis, Macopsica, Magomadas, Gurulis, Nura; recentemente un importante caposaldo punico è stato scoperto a Monte Sirai. Se le città costiere sorsero evidentemente come punti di appoggio sulle grandi rotte marittime del commercio, quelle dell'interno rispondono ad esigenze molteplici, tra cui sul piano internazionale va citato l'intento di tener lontani i Greci da questa zona vitale per il traffico mediterraneo, mentre sul piano interno la creazione delle colonie ha una funzione di protezione dei centri costieri e nello stesso tempo di sfruttamento delle risorse agricole e minerarie.

In Spagna la colonizzazione fenicia ebbe lo scopo essenziale di assicurarsi il controllo delle fonti del commercio dei metalli (oro, stagno e specialmente argento) che i Fenici acquistavano in questa regione per poi rivendere in Oriente. Le principali colonie sono Cadice, forse anche la più antica, secondo la tradizione che la vuole fondata dalla flotta di Tiro nel 1110; poi Tartesso, città ricca per il commercio dei metalli, Ibiza nelle Baleari, di primaria importanza per il controllo delle rotte marittime verso i porti spagnoli.

LO SCONTRO CON ROMA

Tra il V e il IV secolo l'affermazione di Cartagine è risolutamente in autonomia nei confronti della madrepatria ed anche nei confronti del mondo greco: sulle coste africane si realizza la costituzione di uno stato autonomo, dotato d'una politica propria e caratteristica. In tale politica, che per il suo intento essenzialmente commerciale richiama e riprende l'eredità fenicia, ma su nuove basi e da un nuovo centro di gravità, non ha parte alcuna l'affermazione imperiale: le colonie cartaginesi restano colonie e non si legano con vincoli di sudditanza alla loro madrepatria: sarà proprio questa caratteristica politica essenziale a sancire il crollo di Cartagine nello scontro con Roma. Ma resta il fatto che per la prima volta Cartagine porta l'Africa a protagonista della storia mediterranea ed è l'ispiratrice di una tenace resistenza al mondo greco.
Al culmine del suo apogeo economico e politico Cartagine si vide sulla strada la crescente potenza dei Romani, che miravano a impadronirsi della Sicilia; intuisce subito che l'avversario è pericoloso e che occorre contrastarlo ad ogni costo. Più di cento anni durerà lo scontro tra Roma e Cartagine e subito tutti i protagonisti compresero che il risultato avrebbe deciso le sorti dell'intero Mediterraneo occidentale. Le vicende delle guerre puniche sono troppo note per essere qui narrate (vi rimandiamo alla Storia d'Italia, nel periodo Romano)

LA RELIGIONE

Nelle sue caratteristiche generali la religione fenicia può essere considerata come il prolungamento nel tempo, con la conservazione e l'acquisizione di elementi autonomi, della religione che nel II millennio avanti Cristo possiamo genericamente e convenzionalmente chiamare cananea. Ma il fatto che caratterizza la religione fenicia, che poi è quella punica, è che le varie città presentano elementi autonomi di culto e a volte anche divinità particolari.
A Biblo le maggiori divinità sono El Baalat e Adonis; a Sidone (Sitone) Baal, Astarte e Eshmun; a Tiro Melqart, Asthart ancora, Bait-ili, Baal-samen, Baal-Malage ed altri.

Poco sappiamo delle divinità delle altre città fenicie. La religione cartaginese presenta caratteristiche in comune con la religione delle altre città fenicie, ma finisce poi col differenziarsi in modo autonomo. Due sono le divinità che prevalgono su tutte: Tanit Pene Baal e Baal Hammon, i quali sono menzionati sempre assieme.

Statuetta del dio Baal Ammon - Stele col segno del dio Tanit

Il nome Baal significa signore e sembra fosse un dio locale prefenicio. Dai suoi caratteri e dalle sue rappresentazioni (un guerriero col casco e con il fulmine nel pugno) lo si direbbe un dio tipicamente asiano come lo si incontra anche presso i Caldei, i Babilonesi, i Sidonii e presso il popolo d'Israele. Figli di Baal sono Alian che ha pressappoco gli stessi attributi del padre, e la sorella Anat vergine guerriera. Asthart sembra un doppione di Anat. L'antagonista di Aliyan figlio di Baal è suo fratello Mot che è di volta in volta sole di mezzogiorno, distruttore della vegetazione e dio degli inferi. Possiamo asserire che la religione dei Fenici nel mezzo del secondo millennio prima della nostra era ha conservato parecchie tracce pure della sua origine. Essa è un ramo della religione asiana primitiva delle forze, della fertilità e della fecondazione.
Sotto l'influenza della filosofia greca il carattere naturalista dell'antica religione prese una forma differente. La fonte principale a cui gli storici attingono per la sua conoscenza sono i testi dello scrittore greco Filone di Byblos, nato in Fenicia verso l'anno 42 della nostra era. Egli ci ha trasmesso le idee religiose dei Fenici riprendendole dalle opere di Sanchoniathon, prete fenicio nato a Berito circa l'XI secolo a.C. Tuttavia l'opera di Sanchoniathon è persa e nessuno prima di Filone ci parla di questo scrittore.

La tradizione fenicia dell'origine del mondo narra che all'inizio esistevano solamente un'Aria densa e il Caos. Da questi elementi derivarono il vento e il desiderio che produssero Mot la cui forma era quella di un uovo. In questo uovo erano riunite tutte le creature in germe.
Gli dei fenici furono adorati in diversi luoghi ma ogni città ebbe una preferenza e un dio come patrono.
Altri dei erano Melqart il dio della città, all'origine il dio di tribù. Agli inizi ebbe carattere solare e fu poi considerato divinità marina. Era anche venerato il dio Baaldagon, soprannominato Sitone, che col tempo acquistò anch'egli attributi marini. Poi c'è il dio Reshei, il dio luminoso. A Sidone regnava un altro dio e cioè Eshum, dio della salute. Le due grandi città del nord della Fenicia adoravano anche le Baalat, femminile di Baal che significa dama, signora. Una di queste Baalat era Ashtart (Astarte) che, come in tutta l'Asia occidentale era la personificazione della fecondità, la dea della maternità e della fertilità, la dea-madre.
Accanto a questi ve ne erano altri non considerati come dei veri e propri, ma in correlazione con quelli. Per esempio: le montagne, le acque sacre, gli alberi sacri.
Con il nome di betyle si designano certe pietre nelle quali si pensava dimorasse la divinità. Gli ultimi scavi fatti a Byblos autorizzano ad avvicinare ai betyle l'ashera, una specie di piccola colonna votiva di legno. I luoghi di culto dei Fenici erano molto spesso dei « luoghi elevati », cioè degli spazi situati al sommo di montagne e di colline. Il tempio consisteva essenzialmente in un recinto sacro a cielo aperto avente al centro o una piccola cappella, santuario della divinità, o un betyle. Davanti al betyle o alla cappella era situato un altare dei sacrifizi. Questa costruzione sopra un'altura che rinchiudeva un betyle non era particolare dell'antichità semitica: nell'Asia Minore sopra le montagne, specialmente a Kara-Dagh si possono incontrare rocce che portano disegnati dei troni, che sono i troni delle divinità. Di fianco ai betyle bisogna ricordare che i Fenici erigevano anche delle stele e dei cippi. L'iscrizione bilingue, che ha servito alla decifrazione della lingua fenicia, era ripetuta su due cippi dedicati al dio Melqart, che sono stati ritrovati a Malta, antica colonia fenicia.

SACERDOTI E INDOVINI

Vi possiamo trovare diverse analogie con le successive religioni e i loro riti (nei corsivi)
Nei templi dei Fenici c'era un gran numero di preti incaricati di compiere i riti; meno frequentemente v'erano anche delle sacerdotesse. Tra i sacerdoti si trovavano anche gli indovini. Al tempio erano addetti numerosi servitori, guardiani molto simili ai Leviti degli Ebrei; c'erano anche degli artigiani perché il
tempio possedeva una vita propria ed era un organismo con una propria amministrazione e proprie leggi.
Prestavano la loro opera anche dei
barbieri, incaricati di tagliare i capelli a coloro che si votavano agli dei. Le funzioni sacerdotali considerate onorifiche erano come presso gli Israeliti appannaggio di certe famiglie.
I Fenici attribuivano ai loro dei alcune qualifiche da cui possiamo dedurre che essi li consideravano come dei padroni oppure anche dei qadosh cioè dei « separati ».

Agli dei si sacrificavano in particolar modo sostanze alimentari che si spandevano e si
bruciavano sugli altari. Noi oggi possediamo anche alcune tariffe di sacrifici con le quali si valutavano gli oggetti sacrificati. Il più importante era il bue, poi in ordine decrescente, il vitello e il cervo, il montone e il capro, l'agnello e il capretto, gli uccelli, il grano, l'olio, il latte e sicuramente il vino. La tariffa detta di Marsiglia fu redatta verso il terzo secolo a.C. Presso i Fenici avevano luogo anche i sacrifici umani. Filone ci racconta che durante i grandi riti pubblici si usava sacrificare i bambini più cari per allontanare le sventure. Alcuni scavi hanno infatti messo in luce presso le fondamenta di alcuni edifici delle ossa di fanciulli, come se questi fossero stati deposti in quel luogo in qualità di vittime propiziatorie.
Le feste religiose consistevano soprattutto in
pellegrinaggi. Una delle più tipiche era quella di Adonis, celebrata con una specie di processione che raggiungeva le vette del Libano e che si arrestava in parecchi punti della strada per commemorare le tappe della caccia di Adonis.
I Fenici ammettevano
l'esistenza di un'anima che alla morte si separava dal corpo e continuava a vivere, ma conduceva una vita vegetativa e senza gioia. Lo spirito del defunto conservava uno stretto contatto con il corpo che egli aveva abbandonato, così che era molto importante che il cadavere venisse preservato da ogni danno, chiuso in una tomba che era chiamata casa di riposo, o casa di eternità. Per questo i sarcofaghi erano situati nel fondo di fossi molto profondi o in caverne nascoste. Non era mai praticata l'incinerazione, ma le salme erano conservate appunto in sarcofaghi e circondati da suppellettili consistenti in gioielli e ceramiche. In certi periodi della loro storia i Fenici subirono anche l'influenza dell'Egitto e così, come si disse, praticarono la mummificazione almeno degli uomini di grande importanza.

L'ARTE

Di questa grande civiltà antica restano ben poche tracce: il tempo e gli uomini hanno cancellato quelle che certamente erano le grandiose città fenicie e così nulla è a noi arrivato dei loro palazzi e dei templi. C'è da dire però che negli ultimi anni nuove ricerche archeologiche, condotte con un rigoroso metodo scientifico, hanno reso possibile il recupero di resti se non di importanza sensazionale, certamente però interessanti che permettono di ricostruire meglio e con esempi diretti la struttura architettonica e pure urbanistica di città e centri minori fenici e cartaginesi. Non bisogna però richiedere testimonianze vistose, quanto il recupero di opere d'arte minore, in particolar modo connessa con i riti funebri: sarcofaghi, maschere, tombe, suppellettili varie.

L'arte fenicia dell'Africa settentrionale, quella che si svolge, cioè attorno al polo di Cartagine è, a confronto di quella delle coste orientali del Mediterraneo, senz'altro più ricca di reperti interessanti e pertanto più conosciuta. La presenza stessa di una città grande e importante come Cartagine, che è duratura nei secoli, rende possibili questi risultati. Infatti gli scavi ampi e prolungati effettuati sul luogo dell'antica città, benché forniscano una documentazione ineguale, riescono a fornire un quadro diretto e denso di opere della produzione artistica cartaginese. Anche a Cartagine però la provenienza delle opere d'arte è per lo più funeraria: si tratta dunque di produzione minore; ma non bisogna dimenticare che l'arte tutta del bacino mediterraneo era all'epoca fenicia priva di opere statuarie di notevoli proporzioni.
Ma è proprio nell'arte, più che negli altri aspetti della civiltà cartaginese, che prima abbiamo riassunto, che è possibile indicare l'evidente legame che l'unisce alla madrepatria e misurarlo in tutta la sua intensa presenza. I reperti archeologici ci dànno però anche la conferma del ruolo « internazionale » di Cartagine nel momento della sua più forte potenza: l'arte punica appare infatti permeata di motivi egiziani e nello stesso tempo greci, essendo Cartagine, molto più della Fenicia orientale, sottoposta all'azione dell'influenza greca; e non manca pure talvolta la presenza dell'influsso etrusco. Ma ciò non significa che l'arte punica non presenti una sua propria fisionomia originale: indubbiamente stenta a differenziarsi e a muoversi secondo motivi propri, ma non per questo fallisce l'obiettivo dall'espressione originale e autonoma.

A cominciare dall'architettura, di cui, malgrado la radicale distruzione dei Romani, che furono tanto scrupolosi da gettare sulle macerie il sale perché neppure le erbe potessero rinascere tra le rovine, è possibile ricostruire l'impianto urbanistico, che si svolgeva attorno all'acropoli di Byrsa, su cui sorgeva il tempio di Eshmun; ma è nella statuaria e nella presenza di cippi e di stele, soprattutto quest'ultime, il vero punto centrale della storia artistica di Cartagine, in cui è presente l'impronta della madrepatria e dell'arte egiziana, ma pure un'autonoma espressione di motivi iconografici, soprattutto animali e umani. Notevoli sono pure i sarcofagi, chiamati del gruppo di S. Monica, e le figurine di terracotta, che compaiono in Cartagine fin dagl'inizi; ma una tipica produzione cartaginese sono le maschere, di una ricchezza davvero eccezionale: la loro utilizzazione era anzitutto funeraria ed esse servivano ad allontanare, con la loro espressione di smorfia, o a conciliare, con il sorriso, gli spiriti maligni.

ECONOMIA E COMMERCIO

Come già abbiamo detto all'inizio, i Fenici seppero sfruttare molto bene le ristrette zone di terra coltivabile a loro disposizione, ricavandone viti, ulivi, fichi e palme da datteri; ma soprattutto i boschi di cedri e di abeti rappresentano la struttura dorsale dell'economia fenicia: non solo servono per la costruzione delle robuste ed agili navi, ma il legno è largamente esportato. La principale industria fenicia fu quella dei tessuti; i fenici andavano famosi nel mondo per la loro abilità nel colorare le stoffe con il caratteristico color porpora ricavato da un tipo di conchiglia diffuso sulle coste della Fenicia. Ma anche l'industria del vetro è fiorente a partire dal VII secolo: non è più accettata la notizia di Plinio che fa dei Fenici gli inventori di questo tipo di lavorazione, ma indubbiamente furono essi a svilupparla e a migliorare la qualità dei prodotti.

E' però il commercio a stabilire la potenza economica dei Fenici. Il veicolo di questi traffici intensissimi con ogni zona del Mediterraneo era la nave. Due erano i tipi più diffusi di imbarcazione: il primo da guerra, con la poppa fortemente ricurva e lo sperone a filo d'acqua; i marinai sono disposti su due file sovrapposte, sporgendo i remi dall'inferiore e gli scudi dal superiore. Il secondo tipo, da commercio, ma anch'esso difeso da alcuni soldati, ha tutt'e due le estremità rialzate, i marinai sono disposti allo stesso modo del tipo precedente; sopra la nave mancano le strutture per la velatura. Naturalmente i Fenici usavano anche navi più piccole, per trasporti di minore entità.
La navigazione, ovviamente senza l'ausilio della bussola, si svolgeva sotto la guida dell'Orsa minore, che significativamente i Greci stessi chiamavano «fenicia». (la Stella Polare, chiamata appunto, la Stella dei
Foinike).
Le navi evitavano con cura di prendere il largo ed infatti le colonie fenicie occupano sulle coste distanze sempre regolari: erano i punti d'appoggio essenziali per una navigazione sicura.
Ma non per questo i Fenici esitarono dal lanciarsi in imprese più rischiose verso mete lontane: secondo Erodoto, e lo abbiamo già in apertura del nostro articolo ricordato, compirono addirittura la circumnavigazione dell'Africa, (conosciuto sotto il nome di "Periplo di Annone") e raggiunsero le Canarie e le Azzorre, e forse accidentalmente l'America del Sud.

L'ALFABETO - LE COMPARAZIONI

Una delle glorie maggiori dei Fenici e forse la maggiore in senso assoluto è la diffusione dell'alfabeto nell'area mediterranea. Non c'è nessun dubbio che siano stati i Fenici ad insegnare ai Greci la scrittura alfabetica. Basterebbe questo solo fatto per assicurare ai Fenici un ruolo di prima grandezza nella storia della civiltà. Non è ancora molto chiara la questione dell'origine dell'alfabeto: che i Fenici lo abbiano diffuso non implica che lo abbiano inventato.

Ai Fenici sembra che l' idea  sia venuta  osservando (loro che viaggiavano molto) i segni  egiziani, quelli mesopotamici, gli ideogrammi cretesi, e.... ora sappiamo dell'esistenza delle Tavolette di Tartaria in Tracia sul mar Nero, e forse proprio qui ai fenici venne la singolare idea.
Il più antico documento a noi pervenutoci con i primi 20 segni; detto Alfabeto n. 1,   é quello di Ugarit  del 1650 a.C. (in questa città era in uso, ed é abbastanza singolare, già da 1350 anni il cuneiforme sumerico con tante variazioni). Ma devono passare altri 664 anni perchè l'alfabeto fenicio   arrivi a una evoluzione con quello di 22 lettere (detto Alfabeto n. 2)  nel 986 a.C.,  sempre a Ugarit (Iscrizione della Stele d'Hiram).
Certamente essi possedevano questi utili segni già verso la fine del 1200 a.C. e ad essi sicuramente spetta il merito di averlo perfezionato.. L'alfabeto fenicio si compone di ventidue lettere tutte consonanti che rendono mirabilmente il suono della lingua. Non figurano invece le vocali, che i Fenici non scrivevano mai. L'invenzione di queste è dovuta ai Greci, i quali accogliendo l'alfabeto fenicio lo modificarono in alcune parti, trasformando appunto alcuni dei suoi segni in vocali.
Fu un francese, l'abate Barthélémy, che alla fine del 1700 decifrò la lingua fenicia. Come le altre lingue essa possiede delle parole radici che per mezzo di suffissi, affissi e modificazioni interne dà le differenti sfumature necessarie all'espressione del pensiero. Queste parole radici sono generalmente formate da tre lettere.
La letteratura fenicia propriamente detta è completamente perduta, ma non doveva essere molto importante. Dotati di spirito pratico e non portati alle raffinatezze della letteratura, l'alfabeto presso questo popolo nacque soprattutto ai fini di semplificare le necessità del commercio. Fra i testi principali della letteratura ricordiamo quelli di « Ras-Shamra » che datano alla metà del XIV secolo a.C..
La semplificazione e la diffusione dell'alfabeto fu un grande apporto dei Fenici alla civiltà; era nato uno strumento di incalcolabile valore per la diffusione della cultura.

Quando però prima gli Etruschi e poi i Fenici saranno sconfitti e integrati con i romani, oltre che il loro sistema politico-economico, crollò anche l'intera loro cultura e insieme il vecchio modo di scrivere. Dopo 4-5 generazioni sia l'Etrusco che il Fenicio, svaniscono nel nulla. Creando in seguito grandi  difficoltà agli studiosi per comprendere sia la lingua che Tirreno dalla Lidia-Fenicia si era portato dietro e sia il Fenicio che ancora a Cartagine era in uso prima dell'arrivo dei Romani.
Alcune difficoltà per decifrarlo furono poi superate solo quando l'abate Barthelemy nel XIX sec. riuscì a decifrare l'alfabeto fenicio n. 2.


La lingua che le iscrizioni fenicie ci presentano è senza dubbio fortemente legata alle altre semitiche dell'area siro-palestinese, sia precedenti nel tempo sia contemporanee: ed è pure senza dubbio in sé frazionata dialettalmente, come frazionata è la storia e la cultura della Fenicia. Ma tutto sommato possiamo dire che la lingua fenicia presenta una propria autonomia ed individualità, e che quindi offre alla definizione del popolo quella componente indispensabile che è la coscienza collettiva di chi parla la stessa lingua.




FINE

Bibliografia:
Grande Storia Universale (20 vol.) Curcio Ed.
Storia Universale Cambridge, (33 vol.) Garzanti.
Il Leonardo, 1969, a cura della Dir.Gen. Educazione Popolare


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From: EsperantoSent: 7/9/2003 5:39 PM

http://www.cronologia.it/storia/grek001.htm

GRECIA - STORIA

William Robertson fu il primo grande storico britannico ad abbandonare il punto di vista insulare per una visione cosmopolita della storia. Robertson espose metodicamente lo sviluppo della civiltà e della società europea, non solo tracciando la storia costituzionale dei vari paesi, ma cogliendo, oltre le singolarità, quanto vi era di comune fra essi, partendo da molto lontano. E sia dal punto di vista politico che religioso si propose di evitare ogni pregiudizio. I suoi tre volumi della "Storia dell'Antica Grecia" con le numerose citate ricche fonti degli storici greci, è completa, ed è una delle sue tante prestigiose opere che gli diedero la fama di grande storico; e da lui copiarono molti successivi storici.

(NOTA: evitate di rimproverarci la sintassi, i testi sono integrali, errori compresi)

LA PRIMA ETA' ( 2100 - 1556 A.C. )
Fondazione Sparta-Atene
OMERO - GUERRA DI TROIA
Tra mito e storia
DIZIONARIO OMERICO
Iliade - dall'A alla Z
LA PIANTINA DI TROIA
1° strato e 4° strato

LA TERRA VISTA DAI GRECI
ca. Anno 1000 a.C.
.
LE NAVI AL TEMPO DI OMERO
La marineria arcaica
I SIGNORI DEL MARE
Tra riti e commercio
LA VITA MARINARA
i canti del periodo ionico
MUTAMENTI SISTEMI POLITICI
Il grande desiderio di libertà
IL GOVERNO SPARTANO
L
e leggi, le severe istituzioni
IL GOVERNO ATENIESE
Le leggi, le istituzioni
.
I GIOCHI IN GRECIA
Nell'antichità
LE OLIMPIADI IN GRECIA
Le prime manifestazioni
.
FILOSOFI, ORATORI, SCRITTORI
ARCHILOCO-ALCEO- SAFFO-STESICORE
TESPI-SIMONIDE-ESOPO-TELESILLA
TIRTEO-CADMO-DRACONE-TALETE
SOLONE-BIANTE-PITTACO-CHILONE
CLEOBULO-ANACARSI-LICURGO
ANASSIMANDRO-ANASSIMEDE
ERACLITO-DEMOCRITO-PITAGORA
DEDALO-TERPRANDRO-FERECIDE
CARONDA-ZALEUCO-TEOGNE
TIMOTEO-EPIMENIDE-ALCMAN
PERIANDRO-ANACREONTE
ARISTOMENE-CARILAO-CECROPE
DANAO-DIOMEDE
LE PRIME GUERRE PERSIANE
LA FILOSOFIA CLASSICA
LE PRIME SCUOLE
-
.ANNO 469-399 a.C.
SOCRATE: QUALE GOVERNO?
ANNO 427-347 a.C.
PLATONE: LA REPUBBLICA !
ANNO 427-347 a.C.
PLATONE: SISTEMA COMUNISTA?
ANNO 384-322 a.C.
ARISTOTELE: LA POLITICA
.
ANNO 384-322 a.C.
ARISTOTELE: STATO UTOPIA
.
-
-
ANNO 392 - 343 a.C.
Da Filippo ad Alessandro
ANNO 343 - 336 a.C.
Morte di Filippo - Alessandro Re
ANNO 336 - 334 a.C.
Alessandro - Le prime conquiste
ANNO 333 - 330 a.C.
Verso il Grande impero
ANNO 330 - 327 a.C.
La "Grande Spedizione" in Asia
ANNO 327 - 325 a.C.
L' invasione dell'India
ANNO 325 - 323 a.C.
Marcia nel deserto - La morte di A.M.
ANNO 323 - 322 a.C.
Successione, Satrapie, lotta Greci.
ANNO 322 - 319 a.C.
La prima guerra dei Diadochi
ANNO 319 - 315 a.C.
La guerra dei Diadochi
-
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From: MSN NicknameŜħσųŧSent: 8/6/2003 10:26 AM
 
 
 
      :: Speciale a cura di Marco Trovato (Amico di Daddo.it)::

"Narra la leggenda che Allah, in collera con gli uomini, decise un giorno di punirli facendo cadere sulla Terra un granello di sabbia per ogni loro peccato. E dove un tempo c'erano fiumi e savane, dove correvano leoni e gazzelle, nacque il Sahara, il padre di tutti i deserti".  Il vecchio Said ama suggestionare i turisti con storie impregnate di esotismo. Ogni sera attorno al fuoco dell'accampamento, racconta di miraggi, tempeste di sabbia, oasi prodigiose disperse tra le dune. 
Avvolto nelle pieghe del turbante, rievoca i tempi d'oro del suo popolo, i Tuareg, i mitici nomadi del deserto, figli del vento e delle stelle. Parla di interminabili cavalcate sui dromedari e viaggi faticosi sotto il sole cocente, di mandrie e pascoli che non esistono più, di pozzi oramai prosciugati, di un mondo arcaico e affascinante scomparso tra le sabbie. 
Il Sahara dei Tuareg, terra epica di esplorazioni e fughe celebrata in tanti film e libri di successo, non esiste più: le frontiere demarcate dalle potenze coloniali, ereditate negli anni '60 dagli Stati africani indipendenti, hanno spezzato il deserto come un enorme mosaico. 
I nomadi sono stati imbrigliati in una ragnatela di confini tracciati in modo arbitrario. Le terribili siccità e carestie degli ultimi trent'anni hanno bruciato i loro pascoli, sterminato le greggi, messo in crisi la fragile economia pastorale. I convogli dei camion hanno sostituito le lunghe carovane, il vento e la sabbia cancellato le antiche piste della transumanza. Uno dopo l'altro sono crollati i tasselli sociali e i valori tradizionali su cui poggiava il secolare modello di vita dei nomadi. Per lungo tempo i Tuareg sono stati i signori incontrastati del deserto, l'unico popolo capace di adattarsi alle proibitive condizioni ambientali del "bahr belà mà", l'immenso "mare senz'acqua". Percorrevano senza sosta le vie carovaniere, tra il Maghreb e l'Africa nera, dominando il florido commercio transahariano.

 Attraversavano le sconfinate distese di sabbia trasportando oro, sale, spezie, stoffe e avorio. Si spostavano con cammelli e grosse mandrie di buoi alla perenne ricerca di sorgenti e corsi d'acqua. Riscuotevano tributi dai convogli dei mercanti in transito sulle "loro terre". Godevano della fama di abili predatori e valorosi guerrieri (i francesi impiegarono trent'anni per piegarne l'indole belligerante), e spesso razziavano i villaggi delle popolazioni confinanti. 
Il celebre geografo arabo Ibn Battuta, già nel XV secolo, descrisse la loro straordinaria "civiltà della sabbia", fondata su un solido sistema di caste. La società Tuareg aveva una struttura piramidale: in cima l'Amenokal, il capo di tutte le tribù; a seguire i nobili, discendenti dell'antica casta guerriera, che assicuravano protezione ai loro vassalli, addetti alla pastorizia, all'allevamento del bestiame e alla guida delle carovane. Sull'ultimo gradino della scala gerarchica si trovavano gli schiavi catturati durante le razzie e costretti ai lavori più pesanti. 
Col passare del tempo questo tipo di organizzazione politica cominciò a incrinarsi, a sgretolarsi, così come la supremazia territoriale dei Tuareg e gli equilibri sociali che per millenni avevano assicurato la loro prosperità. 
Oggi i leggendari "uomini blu" (così chiamati per via del tipico turbante blu indaco che tinge anche la loro pelle), emblemi di libertà e fierezza, rischiano l'annientamento culturale. Ne restano poco più di un milione, dispersi fra cinque stati: Niger, Mali, Libia, Algeria e Burkina Faso. 
Pochi, neppure 100 mila, hanno mantenuto gli usi e i costumi della tradizionale vita nomade: viaggiano nel cuore del Sahara, vivendo di contrabbando o di piccoli commerci. Percorrono per settimane piste millenarie, rinnovando gesti e rituali senza tempo: si orientano con le stelle, dormono su stuoie all'aria aperta, bevono da otri di pelle appese sui dorsi dei cammelli, si cibano di datteri e formaggio di capra. Cinque volte al giorno arrestano le carovane per pregare: osservano il sole per individuare la direzione della Mecca, srotolano piccoli tappeti ed eseguono le abluzioni prescritte dal Corano. "Allah akbar", "Dio è il più grande", ripetono in continuazione. 
Purtroppo anche questi ultimi cavalieri del deserto, custodi di un antico e prezioso patrimonio culturale, sono minacciati dall'aggressione della società moderna.
Nell'Africa di oggi sembra non esserci spazio per un popolo di nomadi tenacemente attaccato alla propria indipendenza e diversità. I Tuareg vengono considerati dai Governi una minoranza pericolosa, una minaccia, e per questo sono oggetto di persecuzioni e discriminazioni. Le organizzazioni umanitarie hanno più volte denunciato arresti arbitrari, detenzioni illegali, violenze di ogni tipo perpetrate da militari e poliziotti contro i nomadi. Spiega l'antropologo Marco Aime: "I Paesi sahariani sono governati da uomini appartenenti a popolazioni un tempo schiavizzate dai Tuareg, oggi desiderosi di vendicarsi delle sopraffazioni del passato".
Le autorità hanno avviato politiche di sedentarizzazione forzata che hanno prodotto risultati disastrosi: sradicati dal loro habitat e imprigionati nei caotici ritmi delle città, i Tuareg sono stati relegati ai margini della vita sociale. 
L'irrequietezza di questo popolo, che rivendica la propria identità e che culla il sogno di uno stato indipendente, rimane inascoltata dalla comunità internazionale.

Le rivolte dei Tuareg scoppiate negli anni '90 in Niger e Mali sono state soffocate nel sangue. Centinaia di migliaia di famiglie, distrutte e ridotte alla fame, sono state costrette a fuggire dagli accampamenti. Molti nomadi hanno trovato rifugio nelle periferie delle città del deserto - Agadez, Tamanrasset, Gao, Timbuctù, Ghat - in baracche arroventate, senza luce né acqua. Vivono di espedienti, piccoli lavori saltuari: vendono oggetti di artigianato, trasportano merci e persone su camion sgangherati, oppure coltivano fazzoletti di terra strappati con fatica al deserto. I pochi che hanno trovato un'occupazione stabile vengono sfruttati in miniere di uranio, oro e altri minerali. Altri riescono a racimolare qualche soldo coi pochi turisti di passaggio.

Il giovane Amhed, per esempio, si guadagna da vivere accompagnando gli europei sulle dune intorno all'oasi di Gadames, in Libia: noleggia un dromedario, indossa turbanti colorati e si mette in posa per le foto. "La gente vuole vedere i Tuareg delle cartoline: lo sguardo profondo e il portamento da nobile guerriero", racconta divertito. 

"Io li accontento ma quando torno a casa mi vesto con jeans e t-shirt". Al polso Amhed indossa un orologio digitale. "Me lo ha regalato un turista, tempo fa", spiega. "Non ho mai capito come funziona. Lo porto sempre con me perché è bello da mostrare agli amici. Un giorno, forse, imparerò ad usarlo". Inshallah. 

 
I Tuareg vivono in bilico tra passato e presente, tra modernità e tradizioni, con l'impossibilità di tornare indietro nel tempo e la difficoltà oggettiva ad assimilare nuovi modelli culturali. Non hanno smesso di sognare gli spazi senza fine del Sahara. Sono nomadi anche da fermi, perché - come ha scritto qualcuno - "L'essere nomade è un modo di vivere, ma anche un modo di pensare". 
"Solo quando viaggio nel deserto mi sento davvero felice", mi confida Hassan, un Tuareg di origini nigerine. "Una casa, una vera casa di pietra o mattoni, è come una tomba... Si può anche vivere qualche volta sotto una tenda, ma la cosa migliore per noi è dormire sotto un tetto di stelle". 
Hassan è bravo e fortunato: lavora per un tour operator e scorrazza per il deserto libico piccoli gruppi di turisti. Guida costosi fuoristrada muniti di sistemi di orientamento satellitare, ma non rinuncia a preservare alcuni usi e costumi del suo popolo. Cuoce il pane sotto la sabbia arroventata dalle braci e prepara il tè secondo un rituale antico e immutato, fatto di mille travasi. "La tradizione impone che vengano offerte tre tazze", racconta. "La prima è amara come la vita. La seconda dolce come l'amore. La terza soave come la morte". 

  

IL MISTERO TUAREG 

"Tuareg" è un termine spregiativo coniato dagli arabi: significa "abbandonati da Dio". I leggendari nomadi del Sahara preferiscono chiamarsi "imohag", gli "uomini liberi". Sono un popolo di stirpe berbera, le cui origini rimangono avvolte nel mistero: potrebbero discendere dagli antichi egizi, provenire dallo Yemen, oppure derivare dai mitici Garamanti, gli abitanti del Sahara citati da Erodoto, la cui straordinaria civiltà è stata raffigurata sulle rocce del deserto, in pitture e incisioni rupestri giunti quasi intatti fino a noi. Oggi i Tuareg sono stimati in circa un milione di persone: 500 mila vivono in Niger, 300 mila in Mali, 50 mila in Libia, 30 mila in Burkina Faso, 20 mila in Ciad, poche migliaia si trovano in Senegal e Ciad. I Tuareg parlano la lingua tamashek (oppure il tamahak nel massiccio dell'Hoggar e l'altopiano del Tassili n'Ajjer, in Algeria) e possiedono un alfabeto particolare, il tifinar, costituito da lettere e segni che possono essere scritti da destra a sinistra o viceversa, e in diagonale nei due versi (lettere guida permettono di capire la direzione nella quale la parola è scritta). I loro poemi e racconti vengono però tramandati per tradizione orale da cantori musicisti che si accompagnano con il tamburo e il liuto.

LA LIBERTÀ DELLE DONNE 

Convertiti all'Islam in seguito alla penetrazione delle popolazioni arabe, i Tuareg hanno mantenute intatte credenze pagane, o quantomeno, premusulmane: sono convinti, ad esempio, che gli alberi e le pietre possiedano un'anima, e realizzano amuleti per tenere lontani i "ginn", gli spiriti maligni che abiterebbero il Sahara. Sono generalmente monogami e la società è di tipo matriarcale: le donne Tuareg, diversamente dalle altre musulmane, vanno a volto scoperto, godono di molte libertà e prendono parte alle decisioni che guidano le comunità. Sono le depositarie principali della scrittura e quindi responsabili dell'educazione dei figli. La tradizione vuole che siano state proprio loro a introdurre tra gli uomini l'uso del "taguelmust", il turbante impregnato di indaco che lascia scoperti solo gli occhi e che colora la pelle (oggi non viene quasi più usato, se non nei giorni di festa). Pare infatti che in seguito a una battaglia in cui i cavalieri Tuareg non eccelsero per il coraggio, le donne, vergognatesi, imposero ai mariti l'uso del velo. 

ABILI ARTIGIANI


L'artigianato Tuareg è semplice e raffinato al tempo stesso: con il cuoio i nomadi realizzano gris-gris (portafortuna), borse, portafogli e selle per i cammelli (le più belle - fabbricate nell'Air, in Niger - sono decorate sulla parte anteriore con un puntale in cuoio e ai lati con piastrine d'argento o d'alluminio). L'argento viene lavorato per creare collane, orecchini e braccialetti. Altri oggetti tipici sono i pendenti-contenitori di talismani, le bacinelle di rame stagnato, le guerba (otri di pelle di capra) e i lucchetti placcati in argento e rame, con chiavi finemente cesellate. L'emblema del popolo Tuareg rimane la croce di Agadez, che i fabbri personalizzano con originali motivi geometrici. 

IN DIFESA DEI NOMADI


Dice un poema caro ai nomadi del Sahara: "Dove sono le tende della nostra infanzia aperte verso l'orizzonte di stelle, verso il deserto della libertà errante ?". La fierezza e l'indipendenza dei Tuareg è oggi piegata dall'aggressione della società moderna. I leggendari "uomini blu" tanto cari alle iconografie occidentali sono sfrattati dalle loro terre, costretti ad abbandonare la vita nomade, perseguitati dal razzismo. In difesa di questo popolo si è attivata da tempo
Survival International, l'organizzazione mondiale che sostiene le popolazioni tribali affinché vengano riconosciuti loro i diritti umani fondamentali. Chiunque desideri appoggiare concretamente la battaglia per la difesa dei Tuareg può anche contattare Les Cultures, un'altra associazione di solidarietà internazionale impegnata da anni a fianco dei nomadi del Sahara.

PER SAPERNE DI PIU'

Per chi ama il deserto e desidera approfondire la cultura del popolo Tuareg, segnalo il libro "Azalai: il tempo delle carovane" (editrice Periplo) di Giosuè Bolis e Myriam Butti. Corredato da cinquanta straordinarie fotografie a colori, racconta l'esperienza di due viaggiatori occidentali al seguito delle mitiche carovane del sale, le Azalai appunto. Nel 1991 i due autori si recano in Niger, dove si uniscono ad una carovana di Tuareg diretta alle saline di Bilma; in un mese, camminando dall'alba fino a notte fonda assieme a sedici nomadi e centotrenta cammelli, percorrono un massacrante viaggio di milleduecento chilometri attraverso il Teneré. Cinque anni dopo, nell'inverno del 1996, Bolis e Butti partono da Timbuktù, in Mali, con una carovana diretta verso il Sahara fino alla meta di Taoudenni, un'ex colonia penale da cui nessuno poteva fuggire. Azalai raccoglie i ricordi e le emozioni di queste due esperienze eccezionali. 

Speciale a cura di: Marco Trovato

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From: MSN NicknameŜħσųŧSent: 8/6/2003 10:29 AM

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     tuaregsc.jpg (7209 byte)    velosc.jpg (6467 byte) accampa.jpg (9722 byte)  tendasc.jpg (7382 byte)

 

Il tedesco Henry Barth, considerato uno tra i maggiori esploratori sahariani, il 14 luglio 1850 si perse nel deserto mentre da solo cercava di raggiungere la vetta del monte Idinen nel cuore della Libia. Scrisse nel suo diario: " A mezzogiorno l'ultima traccia di ombra scomparve....soffrivo così crudelmente i tormenti della sete che succhiai il mio sangue per dissetarmi. Infìne persi conoscenza e caddi in una specie di delirio..."

E' da sottolineare che l'essersi "dissetato" col proprio sangue non sarebbe certo servito a salvare la vita di Barth: solamente il provvidenziale intervento di un tuareg impedì che morisse di sete.

Questa considerazione vale per ogni situazione in cui viene a mancare l'acqua: soltanto un aiuto esterno può risolvere un momento altrimenti difficile e, qualche volta, drammatico,

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I TUAREG
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I grandi nomadi del deserto ci stupiscono e ci affascinano con usanze diverse da tutte le altre; ma il loro messaggio non è solo quello che ci parla della bellezza della diversità. Proprio i gruppi che vivono in modo estremo ci raccontano soprattutto della flessibilità della mente umana e della capacità dell'uomo di entrare in un rapporto ottimale per la sopravvivenza, con qualsiasi ambiente. L’avventura sul pianeta dei nomadi Tuareg costituisce una splendida tessera nel mosaico dell'avventura globale dell'umanità e si affaccia a buon diritto con un'economia antichissima alle soglie del terzo millennio

  La vita di questi nomadi è regolamentata e segnata da feste e da riti di passaggio che accompagnano il targui dalla nascita alla morte. E' durante le feste che i Tuareg indossano i veli più belli, tinti di indaco, di stoffa finissima proveniente dalla Nigeria tanto impregnata di pigmento da essere lucida e lasciare sul volto di chi la indossa il caratteristico colore che è valso ai Tuareg il soprannome di uomini blu.

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il velo
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uomovelo.jpg (31567 byte)Il velo è parte fondamentale dell'abbigliamento e, oltre a proteggere dalla polvere e dal sole, copre la bocca proteggendola dagli spiriti negativi, portatori del malocchio. Per quest'ultima ragione i Tuareg non tolgono mai il velo e non scoprono la bocca davanti alle donne o a stranieri, anche mentre bevono o mangiano. Il velo, indispensabile elemento del costume tradizionale, è donato ai giovani per sancirne l'ingresso nel mondo degli adulti. Altre celebrazioni hanno già accompagnato i piccoli daila nascita. I piccoli targui nascono in una tenda apposita, destinata ad ospitare la puerpera e il neonato nei successivi quaranta giorni: la donna è assistita nel parto da un'anziana. Al settimo giorno il neonato riceve il nome in una cerimonia in cui gli è messo al collo un piccolo amuleto contenente dei versetti del corano. Al quarto anno di vita i maschi sono circoncisi. Solo dai sei anni sono introdotti alla dottrina islamica, anche se fin da piccoli è insegnato loro l'amore, ed il rispetto verso il prossimo, e cominciano ad imparare le prime regole della pastorizia. Più tardi, solo i maschi saranno introdotti ai segreti dell'allevamento dei dromedario e al commercio, mentre le femmine cominceranno a dedicarsi ai lavori domestici. Dall'infanzia all'adolescenza sarà l'acconciatura ad identificare lo status: i ragazzi conserveranno il ciuffo d'Allah sulla sommità del capo; le ragazze saranno pettinate con treccine.

 Alla pubertà riceveranno il velo: il padre consegnerà al ragazzo il litham, la madre darà alla ragazza il tikest. Gli uomini hanno due tipi di veli. Il cheche è costituito da una fascia alta una ventina di centimetri e lunga fino a tre metri, avvolta attorno al viso e al capo, nascondendo la bocca, realizzato in tessuto di cotone, preferibilmente bianco o tinto di blu o nero. I veli sono avvolti in tanti modi, mai casuali e rispondono a precise esigenze estetiche e di riconoscimento. ll taguelmoust è il velo delle feste; è costituito da una fascia che può arrivare fino a sette metri, di finissimo cotone impregnato d'indaco d'aspetto lucido e cangiante.

stanza12250.jpg (15480 byte)Il velo della donna, l'afer, contrariamente a quello in uso presso le donne mussulmane sposate, ha funzioni estetiche e di riparo per sé e per il piccolo: è un rettangolo di tre metri per due, formato da tre bande di tessuto nero, ricamate con motivi geometrici.

Il velo per le feste è l'alechou, in leggerissimo voile di cotone impregnato d'indaco tanto da essere lucido.
Strofinandolo sulle labbra, la targuia (donna tuareg) si trucca. I veli sono conservati con molta cura e indossati solo in rare occasioni, evitando frequenti lavaggi che li farebbero scolorire e perdere la briliantezza e gran parte del loro pregio.

frecciatop50.jpg (2500 byte)


stanza1250.jpg (13164 byte)ACCAMPAMENTO TUAREG
1acca.jpg (11395 byte)

I Tuareg simboleggiano il deserto di oggi. Una grande tenda, composta da decine di pelli di capra, dipinte di ocra rossa e sapientemente cucite dalle donne, racchiude tutti gli oggetti e gli utensili della vita quotidiana dei Tuareg. Le variopinte sacche per i viveri e per gli indumenti, le armi, i semplici giacigli e gli oggetti di cucina, verranno evidenziati da un fascio luminoso che, spostandosi, attirerà l'attenzione del visitatore. Un commento sonoro e parlato lo guiderà nel "mondo" dei Tuareg e nel misterioso fascino del deserto.

 


Tuareg250.jpg (15999 byte)LA TENDA
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 Se i Tuareg sono padroni del deserto, la tenda è e resta il luogo privilegiato della vita Tuareg, anche se la maggior parte del tempo uomini e donne lo passano all'esterno.

La tenda di pelle è usata esclusivamente nel Sahara. La sua copertura piuttosto appiattita è particolarmente resistente, non teme le impetuose bufere di sabbia ed ha un colore che si mimetizza con l'ambiente circostante.
Composta di un'intelaiatura formata da pali di sostegno, da un rivestimento (velum) e da pareti laterali, è portata in dote dalla sposa.
Le tende dei vari gruppi si distinguono per l'intelaiatura che varia da regione a regione. Una tenda di medie dimensioni è costituita da una quarantina di pelli di carpa e la sua ampiezza è determinata dal numero dei componenti della famiglia.

Tenda250.jpg (14138 byte)La preparazione della pelle comprende la rasatura, la concia, l'impermeabilizzazione e la tintura. Il taglio e la sutura sono compito delle donne. La copertura viene distesa sopra l'intelaiatura e fissata con paletti al terreno. In caso di vento viene appiattita e fissata al suolo usando delle pietre. Le pareti della tenda sono costituite da graminacee intrecciate con fettucce di pelle colorata. Al variare delle condizioni climatiche, è possibile chiuderla completamente o lasciarla parzialmente aperta per formare dei cortili o favorire la circolazione dell'aria. La stuoia che costituisce le pareti è decorata con immagini stilizzate d'animali, oggetti e simboli tipici, nasce dal lavoro di un intero anno di due donne: per questo l'asseber è un pezzo d'arredamento particolarmente pregiato.

Tenda2250.jpg (14221 byte) E' la donna che si occupa del montaggio della tenda, scegliendo il terreno, preparandolo togliendo arbusti e pietre, sistemando la struttura di pali su cui stendere la copertura. Alla fine del montaggio cosparge il pavimento di sabbia fine. La tenda viene orientata in base alla direzione del vento. L’intero accampamento si compone di non più di cinque tende distribuite su un'ampia area e la permanenza in un luogo non dura più di due settimane.

La tenda protegge l'individuo da sguardi indiscreti e dal Teneré, - I’esterno - dominato dagli eventi naturali, garantendo quel senso d'intimità che difficilmente potrebbe essere trovato all'esterno: i nomadi hanno timore delle case in muratura e le considerano le tombe dei vivi.

Ai margini del Sahara e nel Sahel, le popolazioni seminomadi utilizzano altri tipi di tende con un'intelaiatura che richiede un montaggio molto complicato, spostandosi raramente.

Ai margini del deserto, nella zona del Sudan, sono diffuse le case d'argilla rosse. Costruite con dei mattoni di terra cruda, fatti essiccare al sole, cui viene aggiunta della paglia per aumentarne la stabilità e la tenuta. Sono quasi sempre di forma rettangolare, con le stanze costruite sul perimetro di un cortile interno su cui danno le aperture e gli accessi. Il muro perimetrale non presenta aperture ed è intonacato in argilla rossa con vari tipi di decorazione. Ci sono anche case in pietra, caratteristiche delle zone montuose e pietrose, strutturalmente simili alle case di argilla, raggruppate in villaggi addossati al pendio della montagna.


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